Fuga a due voci

sono partita – per allontanarmi
sono dovuta anche tornare
per credere che pur sparisca io
rimane ancorata la città

sei partita – per allontanarti / c’è stato un momento in cui
sei dovuta anche tornare per / dimostrare che è possibile e
credere che benché sia sparita / vale la pena rivenire ma
rimane ancorata la città / il ritorno non è un dover

fa parte del processo un ritorno / un momento per mettere in una scatola
dimostrare che è possibile / tutta questa vita intensa
che vale la pena / (dis)illusione, amore e conflitto
e che non è un dover / entrare per chiuderli tutti

hai messo quindi in una scatola / come se potessi tornare a
tutta quella vita intensa / vivere ciò che c’era prima
(dis)illusione, amore e conflitto e / la speranza di non aver perso tutto
sei entrata – così l’hai chiusa / cantava con una voce di sirena

ogni storia imbottigliata che / con tanta forza – tant’incanto
era ancora presente / mi chiamava a tornare
solo se ripresa e vissuta / l’infinita musica della città
poteva trovare una fine / abbracciata da quel mare piegato

sei partita – per accontentarti / di quel momento così breve
di un passato già remoto / ma troppo intenso per
dubitarne il presente d’una volta / lasciarlo fuggire
non potevi – né per un minuto / ne serviva un contrappunto

per tanto che non volessi / sono partita – e contenta alla fine di
lasciar fuggire quel momento / quel passato quasi quasi remoto
è stato possibile comunque / dubitarne il presente d’una volta
avendo trovato il contrappunto / oramai non mi viene in mente

[toccata]

storie

Anche i fiumi che sono più larghi che profondi a volte inondano il paese. Anche i fiumi che sono più larghi che profondi devono prima o poi arrivare al mare e scordarsi del loro nome.

incontri

Prova a vivere tutta la tua vita in quattro giorni. Vedrai subito se è ancora tua. Prova a raccontarla in cinque minuti. Vedrai subito se ne vale la pena.

presenza

Ho già visto il cielo verde, però mai le erbe azzurre. Non c’è mondo in cui non veda la tua riflessione.

toccata

Mi accarezza il vento e il sole. Mi prende la mano un pensiero. Mi chiama il mare (come sempre) –
Alleggerita, trovo direzione
comincio a scintillare
e solo spero che non piova a casa mia.

stasera

chiara e luminosa, come un cristallo,
come son le acque di un mare dei miei sogni
scura ed amara, forte
come son le fave di cacao
dolce-inquieta, com’è una notte
sotto stelle sconosciute.

[preludio]

Mettiamo… una camera osbscura. Ma una enorme. O l’Universo dentro un cubo di dieci per dieci. Un cubo verde, di cartone e cartoncino. Allora, quando eri dentro, vedevi tutte le stelle; e adesso che sei fuori vedi soltanto un cubo verde che a questa distanza sembra così piccolo che sei sicura che non ci staresti mai.
Così sono implacabili le regole della prospettiva.
Un angolo del cubo è stato tagliato per poter guardarci dentro ed assicurarsi che davvero c’è tutto l’Universo dentro.

Prendi questo cubo e l’avvicini, dall’angolo tagliato, alla bocca. E gridi.

Aspettate! Sto arrivando!

Silenzio.

Lo scuoti, forte. Riprovi.

Ci siete ancora???

Silenzio.

Lo guardi e cerchi un modo di entrare. Conoscendo le regole – implacabili – della prospettiva decidi che alla fine è molto più facile camminare, anche lontano, di rimpicciolirsi.

Quindi –
parti.

casus impossibilis

Mi vide e disse:
C’è chi sorride sotto la pioggia!
C’era acqua ovunque:
la pioggia da sopra
la marea tutt’intorno
E m’abbracciò il buio del mare.
È arrivato l’inverno:
arrivar più lontano
non mi sembra possibile.
Ma c’è chi sorride
sotto la neve.

giornale di bordo

Tra i miei viaggi da sognatrice mi è capitato uno a vela. All’imbarco ho spento ogni corrente di tempo che non fosse definito dal Sole – e finalmente ho avuto l’opportunità (ed il piacere) di sognare per me stessa. Sono venuti un po’spettinati, di colori troppo iridescenti, fatti da quelle distanze – e vicinanze – frammentate che mi portava dietro il vento, mai definite da tempi o spazi ma con l’importanza di quello che era successo.

Sono ancora malata di terra.

•  •  •

Le parole erano quelle di sempre. Il movimento no. E ad un certo punto non si sapeva più di chi fosse quel ritmo.

Se non hai mai osservato quel momento cinque minuti prima della tempesta
– quando arriva il vento ma ancora sembra indeciso se attaccare; quando già non si vede il sole, ma da sotto quelle nuvole scure e pesanti esce una luce penetrante che svela tutta la bellezza agitata delle città più grigie e noiose –
Se non l’hai mai osservato, non capirai questa febbre strana
questa stanchezza che mi manda a fare altri ed ancora altri giri nei vicoli
quest’aspettativa impaurita che apre migliaia d’opportunità – ed impedisce che nulla succeda
questo sogno per cui non mi posso addormentare.
Questa febbre strana che è come se avessi quella luce – di prima della tempesta – inchiusa in me
come se essa radiasse attraverso la mia pelle ormai bruciata fin essere trasparente.

Scambiare i nostri ritmi così non sarebbe una cosa tanto lieve.

pizzica minore

Sentite quant’è leggera questa notte?
Suonatemi ancora – stavolta senza quel fuoco
che sempre mi corre nelle vene,
che brucia il pensiero
e divora tutto ciò che non è il momento.
Suonatemi ancora, amici,
con la leggerezza di stanotte
così diluiamo quelle distanze assurde
– senza mai arrivare ad esser vicini –
in questo mare piegato,
nel silenzio delle onde.

Quella notte ho respirato una leggerezza che mi ha subito fatto capire perché uno la volesse mai chiamare insopportabile. Era fresca e cristallina come quel venticello del mare – del mare che comunque la mattina dopo si è finalmente staccato dal cielo, aprendo l’orizzonte e lasciandomi un piccolo spazio per provare di nuovo le ali. Ci volevano per la partenza.
Quella notte ho respirato una semplicità in cui si sono diluiti tutte le domande – ancora esistenti – e che mi ha sollevato con una naturalità perfetta, senza però lascare nessun dubbio che ad un certo punto dovrei atterrare
e che in quel momento dovrei sopportare tutto il peso di terra e cielo.

L’aria qui è talmente diversa che mi ricorda ogni momento alle distanze che ho dovuto fare al ritorno.

de profundis

il mostro di nervi

Una roccia.

Mostro rimasto dai tempi mitici, che spiaggiò una volta e non riuscì a tornare con la bassa marea; e vista dal sole – o dalla rabbia impotente, chissà – rimase petrificata, con l’ultimo grido disperato spaccato nella bocca.

Una sola mossa. Uno sguardo che mi segue. Un pensiero troncato.
Sarebbe stata una storia bellissima, tipica e banale – ma non è mai stata raccontata, né tanto meno vissuta.

Viveva negli abissi, dove gelide sono le acque ed eterna l’oscurità; cercava le navi affondate e ne divorava la storia. E quando aveva voglia d’alcuna delizia s’avvicinava alla superficie, cercando delle barche, e banchettava dei sogni dei marinai. Gli rubava il ricordo dell’amata, l’immagine del porto perseguito o la lealtà verso il capitano – e così nascevano altre storie, intense, sanguinolenti, deliziose, e lei le seguiva, finché le navi affondavano senza che mai nessuno sapesse del loro destino.

Eravamo ancora all’alto mare, dove le onde son maestose ed i venti imprevedibili. Volevo vivere le storie io, volevo vivere quell’unica storia.
Ma in un momento qualcosa si mosse nelle acque gelide, scure e profonde – e dall’oscurità si separò un’ombra ancora più nera. Come tutte le ombre, era un contrappunto perfetto di chi la proiettava. Quell’ombra era la mia.
Ti avrei an-negato anche il nome – e me ne sarei pentita –, ma di quello non n’ero capace. Ma per quel momento non ti perdono mai.

Chissà se la tempesta o una carezza delle stelle ancora le permette di tornare all’alto mare. Sempre in ricerca di storie, quelle notti banchetta di nuovo dei ricordi e dei segreti che solo al mare confidammo.

Magari ci potremmo anche trovare, per un solo momento. Non so se mi vedi ancora però: il mare è enorme e tu troppo lontano.

Ma l’alba sempre la troverà lì, roccia sulle rocce, rigettata, petrificata, con l’ultimo grido spaccato nella bocca.

Cantami una sola canzone ancora.

coincidenze

Una volta preso il treno, bisognerebbe anche pensare alla coincidenza. Anzi, le coincidenze: questa città ne è piena.
Credo di averla persa comunque – sono rimasta qui, sospesa nell’aria,
grigia, vuota e traslucente.

La città si è chiusa intorno a me: ormai sono a casa. Ma qui il mare continua nell’aria – a volte non se ne distingue neanche – e per l’umidità mi pesano le ali.

Ero al porto quel giorno, tra tutti quei ritmi e colori. Mi sentivo invisibile – quindi ho deciso di sparire dal tutto.
Poi non mi sono ritrovata neanch’io; quella notte non riuscivo nemmeno a sognare. Non mi guardare così, ogni tanto capita. Sono tessuti ben complicati, le stoffe di sogno; fossero semplici si romperebbero sulla prima realtà un po’ angolare.
Ma quel giorno non riuscivo a sognare nè il più leggero e modesto dei sogni.

Specchiata, di nuovo, a mille frammenti
– grigia, vuota, traslucente –, stavo
guardando, gli occhi fissi, invidenti,
mentre che nel cielo giravano le stelle.

7:39

[Ventimiglia]

Sarebbe il momento di raccontare delle cose – ma sto cercando le parole che mi sfuggono ancora. Poi non è che le immagini vengano tanto facilmente neanche.
Sarebbe l’ora di cominciare a vendere quei sogni – o regalarli, è quasi lo stesso. I sogni mai si vendono per soldi. Non penso però che sia un tradimento venderli. (Se ci riuscissi, almeno….) Ragione per abbandonarmi. E alla fine lui era il mio maestro. Anche l’amante, certo, ma più importantemente il maestro. Come se non ci fosse vita e mondo fuori del Labirinto e di suoi frammenti.

 

[Bordighiera]

[San Remo]

Cosa ne faccio d’un altro mago nella vita? (– se lo è veramente, non ne sono sicura)
Se almeno scoprissi come fa ad avere quella presenza impressionante. Per altro, come ben potrei sapere già, il mago è persona come me, come chiunque.
Però che ne faccio dunque d’un altro mago nella vita?

Comunque ho sopravissuto migliaia e migliaia di gocce – di pioggia, tutte riflettenti dello stesso nome. Devo però ammettere che se devo nominare uno dei due porti, a volte ancora mi sbaglio.

 

[Imperia – Porto Maurizio]

Maura, sognatrice.
Dovrei lasciare già questo mondo, di luci troppo contrastate, notti stellate e tempeste marine. Smettere di fare sempre questa salsa:

 

[Diano Marina]

acqua del mare, fiori d’oleandro, miele ed erbe amare. Agrodolce, velenosa.
Dovrei essere molto più pragmatica.
Ormai non sogno per piacere. Sogno da mestiere, e li vendo, i sogni; è un’autentica forma di prostituirsi.
Ormai non sono la bambina innamorata del maestro. Abbiamo fatto le nostre storie, il maestro ed io, e quando non potevo imparare più niente da lui, l’ho lasciato. Suona bene, vero?
In realtà rimane sempre il maestro però. Continua ad essere molto più forte di me, anche se mi spiace ammetterlo. Continua ad essere lui ad abbandonarmi ed io a seguirlo. Ma ogni tanto torna da me.

 

[Alassio]

Nel mentre mi diverto con questi altri, dèi, dee e demoni, mostri, streghe, maghi (e maghe), matti e vagabondi. Pochi mi prendono l’attenzione per più d’un momento: per la gran maggior parte sono troppo facili da sognare. Quei pochi invece mi prendono in giro lo stesso.

 

[Albenga]

Dovrei veramente essere molto più pragmatica.

 

[Finale Ligure]

Strano come mi si costruisca questo mio mondo, con dei pezzi duplicati in diverse lingue. Strana questa caccia di parole, strana e forzata questa volta. Ma se prima mi sono ubriacata – frammentata –, così mi compongo.

 

[Savona]

Maura, sognatrice.

Alla fine sono anche belli, questi sogni. Non tanto come quelli prima, è vero, ma sono meno quadrati, come dire,  meno accademici. Forse non è la parola più adeguata, ma spero che si spieghi. Non abbiamo proprio un linguaggio tecnico di questo mestiere. Direi comunque che ho imparato bene la tecnica, mi manca solo trovare la voce. Quella mia propria. Per non seguire sempre il maestro.

 

[Genova Piazza Principe]

Scusate, mi devo svegliare un attimo.